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Luigi De Giovanni
Percorsi
Sutta le Capanne du Ripa Piazza del Popolo, 21A
Studio 22 Piazza del Popolo, 22 Specchia (Lecce)
11 dicembre 2021 dalle 10.00 alle 18.00 sino all’8 gennaio 2022
Evento organizzato nell’ambito della
17 “Giornata del Contemporaneo”
indetta da
AMACI - Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani
Saluti delle Autorità Istituzionali
Allestimento: Arch. Stefania Branca
A cura di: e20cult con il patrocinio del Comune di Specchia
Info: cell. 3292370646Percorsi
I misteriosi percorsi delle idee, che nascono lentamente prorompendo sino a diventare racconti, si vestono di colori, di sensazioni, d’interiorità e di vita. Raccolgono i ricordi del tempo, le impressioni di un attimo, le luci cangianti della natura che vive, per farli diventare d’incanto pennellate, fissate creando atmosfere che vogliono andare oltre il reale: oltre l’angoscia che in questi ultimi due anni ci ha attanagliato. È così che Luigi De Giovanni, seguendo i suoi pensieri, ci dona il suo mondo, le sue emozioni: il suo essere artista. Per la Giornata del Contemporaneo vuole regalarci sensazioni di risveglio o meglio di rinascita nella speranza che tutto finisca al più presto per riprendere nella gioia del vivere senza l’angoscia del COVID 19.
Federica Murgia
Solomea
Il freddo d’inizio inverno si era fatto pungente. In casa di Gavino c’era concitazione perché Consolata era pronta per il parto del decimo figlio e già dal pomeriggio aveva avvertito le doglie. Damiana, la madre di Consolata, stava in cucina e da una vicina che assisteva la partoriente venne mandata a chiamare l’ostetrica perché era giunto il momento del parto. Lei corse subito con il cuore in gola. Giunta a destinazione bussò sino a che il marito dell’ostetrica non aprì la finestra e con imperio chiese cosa avesse per disturbare a quell’ora della notte. Damiana gli disse che sua figlia stava partorendo. Lui rispose che sua moglie, a quell’ora, non sarebbe andata da nessuna parte. Disse pure che la partoriente non era al primo figlio per cui: << Andate a casa e fate il vostro dovere di madre aiutandola. Mia moglie passerà domani mattina a visitarla.>> Poi chiuse la finestra borbottando. Tornato a letto raccontò a sua moglie che Damiana li aveva svegliati perché sua figlia Consolata stava partorendo. L’ostetrica si girò sull’altro fianco dicendo: << Consolata è al decimo figlio, vuoi che non sappia come si fa a partorire!>> Damiana, avvertendo un brivido che le attraversava la schiena, si strinse lo scialle e corse da sua figlia. Ebbe l’impressione che per strada un’ombra scura si allungasse precedendola. Il cuore le si rimpicciolì in una morsa d’angoscia. Mentre stava entrando a casa della figlia ebbe l’impressione che quell’ombra orribile fosse lì e si stagliasse minacciosa nella parete del primo piano. Aprendo la porta, sentì l’urlo del genero Gavino e capì che l’ombra che l’aveva preceduta si era portata via Consolata. Il dolore la travolse. Consolata aveva avuto una emorragia che non era stato possibile bloccare. Anche il nascituro era spirato subito dopo la madre. La figlia piccola Solomea, che aveva due anni, piangeva e chiamava la madre e per tranquillizzarla il babbo la prese in braccio e mentre la cullava le parlava del suo dolore. I bambini vennero portati tutti da una vicina. Nella casa di Gavino era entrato il dolore e pareva aver travolto ogni sogno, ogni speranza. Per far fronte alle esigenze della famiglia Gavino si trasferì con il gregge nel Sulcis, dove cominciò a fare il pastore di giorno e il minatore di notte. Il figlio più grande lo aiutava nella mungitura e portando al pascolo le pecore, mentre a fare il formaggio e la ricotta ci pensava Gavino. Gli altri figli erano stati affidati alla nonna materna. Erano passati quattro anni dalla morte di Consolata e Gavino era ormai rientrato in paese. Un giorno Salvatora, una cugina benestante di Gavino, vedova e senza figli, chiese che le venisse affidata la piccola Solomea. Gavino accettò volentieri. La bambina, che conosceva Salvatora, si mostrò felice del cambiamento, anche se, i primi periodi, soffrì parecchio. Salvatora la trattava con amore e non le faceva mancare nulla. Un giorno si presentò a casa di Salvatora, con un cestino di dolci, Egidia, soprannominata Sa Stria (la civetta). Salutò con fare gentile: <<Buongiorno zia Salvatora come sta? Mi hanno detto che è raffreddata e sono venuta per darle una mano in casa. Mi pare che questa bambina non sia capace di fare niente, ma, poverina, nessuno glielo ha insegnato: vero Solomea?>> <<No! Io so fare tante cose ma zia non vuole che l’aiuti perché dice che io devo farle solo compagnia!>> <<Una bambina della tua età deve fare le faccende domestiche senza che glielo chiedano e non deve solo mangiare. Che dice zia Salvatora ho ragione?>><<Figlia mia, Solomea è piccola e a mi fa piacere che mi tenga compagnia e sia contenta. Io le voglio bene come se fosse mia figlia>> <<Qualche volta verrò ad aiutarvi io; non per paga, ma perché io vi sono affezionata come una figlia.>> Egidia, dopo aver salutato con voce melliflua, andò via. Salvatora era sorpresa della visita della donna perché era una persona che non aveva mai frequentato. Solomea, forse intuendo la preoccupazione della zia, le chiese: <<Zia, perché è venuta a portarti i dolci quella?>> Salvatora non rispose ma invitò la piccola a mettersi la mantella per andare a regalare i dolci, che aveva portato Egidia, a Felicina, una sua amica povera che sicuramente non poteva permetterseli. <<Zia passo a salutare babbo e i miei fratelli, che dici?>> <<Certo figlia mia. Domani andiamo insieme a trovarli e portiamo uno stufato d’agnello con patate, perché sicuramente tuo padre preparerà la solita carne arrosto.>> La bambina felice corse a fare la commissione e a visitare la sua famiglia. Rientrò eccitatissima dopo neanche mezz’ora. <<Zia, zia, babbo mi ha detto d’andare a pranzo a casa nostra perché mie sorelle stanno preparando is culurgionis con nonna! A me ne hanno cotto tre sul treppiede, ed erano buonissimi! <<Torna da loro e avvisali che io, già da oggi, preparo il sugo con carne di maiale. >> La bimba felice corse a casa sua e rientrò subito dicendo che erano tutti contenti.
I giorni e i mesi passavano sereni. Solomea si preoccupava solo quando arrivava Egidia perché la rimproverava e la sminuiva agli occhi della zia. La donna, invece, blandiva e colmava di attenzioni Salvatora. Con il passare del tempo Egidia era onnipresente, in casa di Salvatora, e dava ordini a Solomea costringendola a riordinare e a fare tutte le pulizie. Pareva che Salvatora si fosse arresa alle lusinghe di Egidia e che addirittura le piacessero. La bambina per la stanchezza spesso si addormentava sulla sedia. Egidia la rimproverava facendo notare a Salvatora come la piccola fosse inetta. Pareva che Salvatora avesse perso l’autonomia e si facesse comandare in tutto e per tutto dalla donna. La bambina, triste, era conscia che la zia non si rendesse conto delle sue sofferenze.
In tarda estate un giorno andarono tutte nella vigna ed Egidia fece notare che gli uccelli stavano mangiando l’uva. Chiamò Solomea e la obbligò a mettere un campanaccio, che intenzionalmente Egidia portava nel grembiule, al collo, ordinandole di correre da una parte all’altra della vigna per scacciare gli uccelli. La bambina, che aveva compiuto sette anni da poco, non voleva accettare ma Salvatora la convinse dolcemente: <<Dai Solomea, non ti costa niente e non c’è niente di male!>> Solomea accettò e cominciò la corsa fra le lacrime mentre Egidia diceva a Salvatora: <<Hai visto come volano via gli uccelli! Ci dovevamo pensare prima! Io per caso mi sono trovata quel campanaccio nel grembiule! Vedrai che quest’anno gli uccelli non mangeranno l’uva e farai sicuramente più vino!>> Al rientro a casa Solomea non volle cenare ed Egidia le disse: <<Dai Campanaccio mangia che oggi ti sei stancata! Ah! Ah! Ah!>> La bambina si disperava quando la donna la chiamava Campanaccio, ma ingoiava le lacrime e andava avanti. Per giorni Solomea dovette correre per la vigna e ormai, non solo Egidia, ma anche i bambini del paese cominciarono a chiamarla con quell’orribile soprannome. Il dolore della bimba era incommensurabile e pensava che se ci fosse stata sua madre o l’avesse saputo suo padre certo che non l’avrebbero più chiamata in quel modo. La tristezza pareva essersi impadronita di lei e mentre correva con quel tintinnio cupo piangeva e pregava che sua madre venisse in suo soccorso ma i giorni si ripetevano sempre uguali e lei correva, correva e correva sognando che un incendio incenerisse la vigna. I suoi pensieri erano ormai concentrati sulla possibilità di potersi allontanare da quella casa. Una mattina non volle andare in vigna a scacciare gli uccelli ed Egidia la rimproverò aspramente dicendole che sarebbe dovuta andare a fare la serva perché solo così avrebbe imparato a vivere e ubbidire. Le mollò uno schiaffo che fece emergere in Solomea il coraggio di scappare e d’andare dove sapeva che il babbo, ormai rientrato dal Sulcis, pascolava le pecore. Come lo vide, da lontano, piangendo gli grido: <<Tu non mi vuoi a casa e io voglio andare a fare la serva!>> <<Che dici figlia mia! Cosa ti è successo? Perché non sei da zia Salvatora?>> <<Io non voglio più che mi mettano il campanaccio al collo come le pecore e non voglio correre in vigna per scacciare gli uccelli come mi fa fare Sa Stria! Non voglio che mi chiamino Campanaccio! Io voglio tornare a casa e se tu non mi vuoi io voglio andare a fare la serva! Io non voglio essere picchiata da Sa Stria!>> Il babbo la guardava con le lacrime agli occhi e con estrema calma le disse: <<Cara Solomea tu non andrai a fare la serva perché noi non abbiamo bisogno di questo. A fare la serva, se vuole, ci andrà Sa Stria perché in casa sua, se non rubano, non mangiano. Tu starai a casa con tua nonna e i tuoi fratelli.>> La bambina rientrò con il padre e i fratelli e la nonna quando la videro l’abbracciarono. Loro erano preoccupati perché Salvatora l’aveva cercata. I fratelli non sapevano che la sorellina era scappata perché disperata. Il fratello disse al padre d’aver fatto a pugni perché un bambino gli aveva chiesto di Campanaccio in tono sprezzante. Gavino andò da Salvatora e le disse: <<Non avrei mai pensato che tu permettessi che trattassero in quel modo mia figlia. Ti sei messa Sa Stria in casa e avrai la parte migliore perché sicuramente lei è venuta da te non per amore ma solo per l’eredità.>> <<Che dici Gavino l’eredità voglio lasciarla ai tuoi figli!>> <<I miei figli non hanno bisogno di niente. Ti auguro che tu stia bene e che venga ripagata a dovere per ciò che hai permesso facessero a Solomea.>> Salutò e andò via. Qualche giorno dopo si scatenò un terribile temporale di grandine che pareva si fosse concentrato sulla vigna di Salvatora distruggendola. Salvatora passò i suoi ultimi anni in miseria, perché Sa Stria l’aveva raggirata e si era fatta fare l’atto di vendita di tutti i beni, per cui, Salvatora, dovette chiedere aiuto a Gavino che, con l’accordo dei figli, la ricevette in casa con amore mentre Sa Stria faceva la signora con i suoi beni.
Dicembre 2021 Federica Murgia
BIBLIOTECA BERNARDINI ex Convitto Palmieri di Lecce
Giovedì 5 maggio 2022 dalle ore 19.00
POETI E POESIE NEL NOSTRO DIALETTO DAL ‘700 AD OGGI
Un viaggio tra tutti coloro che hanno fatto propri i versi di Francesco D’Amelio
”… è la lingua de lu tata/ ca me scioca ‘ntra lli dienti…”
Coordina Raffaele Polo
L’anima delle persone è anche nel dialetto che racchiude cultura e storia. Infatti, comunicare con il dialetto è un trasmettere contenuti che hanno in più il valore delle tradizioni che caratterizza un paese. Il dialetto, o meglio la lingua nel caso della Sardegna, consente un parlare genuino ed efficace e ci tramanda quelle espressioni, spesso sintetiche, capaci di dare significato ad un pensiero arricchito della cultura e delle tradizioni di un luogo. Riscoperto da me sola da adulta, grazie ad un progetto della Scuola Media “Alfieri” di Cagliari e al grande lavoro di Giampaolo Loddo, perché quand’ero bambina i miei genitori m’insegnarono solo l’italiano, è diventato per me un ritrovare la Barbagia, un ritrovare Seulo il mio paese: un ritrovare l’essenza della mia terra. Quest’evento leccese, per una sarda come me, è un grande dono perché mi dà l’opportunità di far conoscere alcuni aspetti, compresa la delicatezza, della mia lingua d’origine e la particolarità della mia terra solo apparentemente dura. Mi fa molto piacere che in questo contesto, con la ricchezza del salentino, ci sia anche una ventata di Napoli che, con una poesia dolcissima, ci fa percorrere quel sentimento che da grande valore all’amore e al calore della famiglia.
DIALETTO E TEATRO:
con William Fiorentino, Franco Ciardo, Uccio Colonna
Oronzino Invitto – associazione teatrale “Mario Perrotta” e “Lu Puparu
Lola Giuranna - associazione teatrale “La barcaccia” Gallipoli”
Dora Solini – Associazione culturale “Teatro Valle della Cupa” Monteroni
DIALETTO E POESIA:
con Gino Maragliulo, Carlo Vincenzo Greco, Luigi Bottazzo e il ricordo di Niny Rucco con la partecipazione della figlia Rita.
DIALETTO E MUSICA con Enzo Marenaci
Con i POETI: Giusy Agrosì, Mario Calcagnile, Pino De Luca, Caterina de Vita, Antonietta Fulvio, Giuseppe Greco, Luigi Liaci, Ezio Calemi, Federica Murgia, Sandro Mottura, Fabio Placì, Cosimo Renna, Tina Rizzo de Giovanni.
CONCLUSIONI del prof. Marcello Aprile dell’Università di LecceIngresso libero con rispetto alla regolamentazione sanitaria anti Covid.
Per comunicazioni:
QUAQUARAQUA’
Certi della loro erudizione, i saputi, sputano le loro verità con fare sicuro affermandone oggi una sempre diversa o arricchita rispetto a quella sostenuta ieri. Hanno leggiucchiato, senza troppa attenzione per i contenuti, o sentito sprazzi di notizie, anche pruriginose, che spacciano per oggettive e giuste. Si pavoneggiano, aggiungendo di volta in volta nuovi particolari, perché hanno sentito o percepito dei frammenti di voci qua e là. Frequentemente carpiscono idee, che poi spacciano come proprie, il più delle volte appiccicate, mancando lo spirito creativo e l’ideazione che dà anima ai pensieri e alle cose. Le idee, di cui si appropriano i quacquaraquà, sono monche e riescono a sorprendere il pubblico solo per poco, in quanto, non hanno un successivo sviluppo e coerente continuità. Qualche volta riescono ad avere il seguito di persone che, anche in buona fede, prestano attenzione, e per questo vanno col petto in fuori e hanno l’aria d’essere molto importanti.
id="system-readmore" /> <p>I quacquaraquà parlano sul nulla convinti di essere scaltri ma, ad ascoltarli, si capisce subito che rappresentano solo la vuotezza mentale e che possono discorrere solo di pettegolezzi, di sentito dire, di cose mai approfondite. Frasi fatte, respirate e rinforzate nei gruppi chiusi, danno il senso della loro cultura e della mancanza di ricerca dell’ideativo, del giusto e del bello.</p> <p>S’infastidiscono quando qualcuno osa confutare l’inconsistenza contenutistica delle cose di cui parlano e continuano a pavoneggiarsi con giri di parole che giustificano solo l’ignoranza: la mancanza di sostanza interiore che possa sostenerli al di fuori delle nozioni che danno loro certezze. Questi sono i quacquaraquà che mi lasciano tutte le volte con un dubbio “ci sono o ci fanno?”</p> <p>Luigi De Giovanni in otto opere ha voluto raccontare il vuoto chiacchiericcio e fare un omaggio a Leonardo Sciascia che, nel libro “Il giorno della civetta”, divise gli uomini in categorie, sistemando nell’ultima proprio i quacquaraquà, persone che, secondo l’autore, <<dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere>>. L’artista ha colto lo spunto e usando gli strumenti della pittura, ha trovato idee e sensazioni materializzando le angosce e le ferite che causa il pantano dei pettegolezzi sino a renderlo concreto nel colore che tinge in monocromo una tela di denuncia, diventata metafora del fango sputato inutilmente. Gocciolamenti, spruzzi, macchie essenziali, nelle opere in mostra, realizzate di getto, esprimono la rabbia istintiva del gesto pittorico che si manifesta, anche, mettendo in primo piano la parola, linea guida, “quacquaraquà”.</p> <p>Nell’opera “malinconia in bianco su sfondo rosa” gocciolamenti di calce, tracce di tinteggiatura di pareti d’abitazione, si rapprendono in una grande e densa macchia screpolata come se si fossero manifestati i segni del disfacimento degli ideali e dei sogni colpiti dagli schizzi melmosi. Uno sfondo rosato, traccia di speranza, contrasta con i sicuri segni bruni che esaltano il significato della cupa malinconia dell’opera che riporta ai piccoli paesi, humus che fermenta il genio ispirato, che fa avvertire sensazioni di disagio, di mancata accettazione dell’uomo per quello che è e non per quello che dovrebbe essere secondo i quacquaraquà benpensanti.</p> <p>Trama del racconto pittorico è la tristezza dell’animo, colpito dalle maldicenze, che si palesa nei dipinti denunciando la superficialità dei quacquaraquà che trasformano in schizzi di fango appiccicoso, che viene scagliato addosso alle persone per annullarle per allontanarle dal loro posto, anche sociale. Le gestuali macchie esprimono la cattiveria diventata tormento, mentre ripetere sulle tele la scritta “quacquaraquà” è una catarsi liberatoria che denuncia l’immobilità mentale di chi non sa rendersi conto del significato delle ferite che infligge. Una tela gialla, che si anima di allegra vitalità e della gioia di ricominciare nel bianco in esplosione, diventa la speranza che si afferma nell’opera dove da uno sfondo bruno di tela grezza, in cui si addensano macchie spesse di colore bianco, c’è la memoria delle persone che riescono a sfuggire al chiacchiericcio: al limo che le aveva circondate e ferite.</p> <p>Nelle opere in mostra si percepiscono le sensazioni di animi offesi e la stoltezza dei quacquaraquà: che potranno continuare con il loro impegno sparlando ed enunciando sproloqui su persone, cose o argomenti.</p> <p>I quacquaraquà sono rappresentati, con sagace ironia, in un omaggio a Leonardo Sciascia che con poche parole riusciva a donarci il clima di un paese dove anche le pareti delle case mormorano.</p> <p>L’artista con una metafora dà spunto ai loro futuri discorsi…. </p> <p> Federica Murgia</p> <p> </p> <p> </p> <p> </p> <p> </p> <p> </p> <p> </p> <p> </p> <p> </p> <p> </p> <p> </p> <p> </p> <p><img src="images/IMG_9095.jpg" alt="" /></p> <p> </p>"
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Scoprire i colori e amarli per sempre.
Luigi a malapena si reggeva sulle sue gambette. Aveva da poco compiuto un anno ed oltre a gattonare cercava tutti gli appigli per camminare o conquistare la posizione eretta.
La madre, come spesso le capitava, era intenta a disegnare i decori per delle tovaglie; perciò aveva messo in giro matite colorate, tempere ed acquerelli.
Sentì bussare e si alzò, erano alcune ragazze che seguivano i suoi corsi di taglio.
Sutta Le Capanne Du Ripa, Specchia - (Lecce) via Umberto I
Info: cell. 3292370646; tel. 0833 537034
E.mail:
Sito web: www.degiovanniluigi.com
Artista: Luigi De Giovanni
Titolo: Rivoluzione
Inaugurazione: 05 ottobre 2012 ore 19.00
Chiusura: 14 ottobre 2012
Un'installazione e una performance che servono a Luigi De Giovanni per raccontare della povera gente che, pur avendo vissuto la rivoluzione, non conta nulla nella scacchiera di quei pochi potenti che ne decidono, “rimestando” di continuo nel mastello del mondo, le sorti.
Che palleeeeeeeeeeee!!!... Mi guardo intorno e vedo il ripetersi del cattivo vizio di sparlare del prossimo per cercare d'apparire importanti e competenti, "ispirarsi" alle idee degli altri per dire so fare viene tramutato in so "copiare"... spudoratamente!
Mi pare che non ci sia differenza in nessun luogo e, per fare esempi, Roma, Milano, Bologna... mi appaiono pari a Sedriano, Canicattì, Vibo Valenzia....!
Certi della loro erudizione, i saputi, sputano le loro verità con fare sicuro affermandone oggi una sempre diversa o arricchita rispetto a quella sostenuta ieri.
NOTA BIOGRAFICA:
Luigi De Giovanni nasce il 12 Febbraio del 1950 a Specchia (Lecce). Sin dalla più tenera età esegue disegni ed acquerelli seguito dalla madre.
- 1967 dipinge assiduamente e fa la sua prima mostra collettiva.
- 1969 si diploma all’Istituto d’Arte di Poggiardo.
- 1970 comincia a dipingere in maniera informale usando tecniche miste e collage.
- 1974 si diploma all’Accademia delle Belle Arti di Roma.
- 1970 / 1978 segue il Corso Libero del Nudo.
- 1973 con il maestro Avanessian inizia lo studio dell’imprimitura delle tele e l’uso delle terre.
- 1974 si perfeziona nella tecnica ad olio.
- 1980 sperimenta la tempera all’uovo; realizza alcune opere con un unico filo conduttore “ le scalate sociali”.
- 1986 collaborazione con la Galleria degli Artisti – CAGLIARI
- 1988 sperimenta tecniche miste con l’uso di materiali di scarto simbolo di “rifiuto” quali: segatura, trucioli metallici, pezzi di gomma inservibili, carta e tessuti e successiva performance con lancio di uova.
- 1988 inizia il rapporto con la Galleria “Mentana” di Firenze che lo presenta alla Fiera Arco di Madrid.
- 1990 comincia a realizzare e ad esporre opere che hanno come filo conduttore “l’angoscia nella società attuale” e comincia ad usare i vecchi jeans come tele per le sue opere a carattere sociale e come pittosculture, con successiva installazione.
- 1998 collaborazione con la Galleria La Bacheca – CAGLIARI
- 2000 Collaborazione con la Galleria Della Tartaruga – ROMA
- 2000 comincia a fare installazioni con i jeans e vari altri materiali o oggetti.
- 2003 Collaborazione con la Galleria “III Millennio” Venezia
- 2011 performance con coinvolgimento del pubblico.